"Viva l'A. e po' bon"
“Viva l’A. e po’ bon” L’innata allegria nelle Vecchie Province ...
La Tribù dei Papagai e la Compagnia dei Americani
Nella Trieste della seconda metà del 1800, i quartieri denominati “Rena Vecia” (Arena Vecchia forse perché originariamente la zona era prospiciente al mare quindi lungo la spiaggia o arenile) e “Cavana” (probabilmente il toponimo derivava dalla presenza di ricoveri per imbarcazioni detti cavane, trasposizione del termine capanne, per lo più di paglia tipiche della zona litorale veneta e dei dintorni), ora non più rispondenti alle caratteristiche originarie, erano un complesso di vicoli con palazzi signorili, osterie e botteghe.
In una di queste strade, la via dei Capitelli, all’epoca avevano la loro residenza famiglie nobili e patrizie triestine e tra queste anche alcune componenti le storiche “10 Casade” (ne parleremo in altra occasione) come i Giuliani, i Burlo gli Argento, oltre ad altre importanti famiglie di commercianti.
Dopo l’interramento delle saline (voluta da Carlo VI e poi da Maria Teresa), la zona, per effetto dello spostamento della popolazione verso la nuova area abitativa del Borgo Teresiano, perse un po’ alla volta la sua caratteristica fino al completo decadimento. Fino a qualche decennio fa, quando la zona venne riqualificata, questi rioni erano un po’ malfamati perché vi si trovavano case di tolleranza alcune delle quali occupavano quelle vecchie e gloriose abitazioni.
Prima dell’applicazione della Legge Merlin del 1958, anche altre zone della città ospitavano delle case di tolleranza anche molto lussuose. Tra queste la più famosa era la cosiddetta “Villa Orientale” che sorgeva alla fine dell’Acquedotto (ora Viale XX Settembre) all’angolo con la via Bonomo, non più esistente; al suo posto è sorto un moderno complesso condominiale.Ma questa è un'altra storia e noi...
...ritorniamo al discorso di partenza.
All’inizio di questa via dei Capitelli si apriva l’osteria “Al Pappagallo” (non più esistente), gestita da dei dalmati verso gli anni 1880. Era questo un ambiente un po’ “rusticano”, anche se ordinato e pulito ma, soprattutto, vi si poteva trovare dell’ottimo vino e delle prelibate pietanze. A fare da contorno alla caratteristica un po’ selvaggia dell’ambiente era la scarsa illuminazione fornita da due beccucci a gas che riuscivano a malapena ad illuminare tutto l’ambiente. L’arredamento era composto da tavoli rettangolari, molto lunghi, affiancati da panche; il pavimento era in pietra calcarea e le pareti imbiancate a calce.
Verso gli anni 1885 alcuni artisti bontemponi come gli scultori Rendich e Taddio, l’avvocato Camber ed il nipote del pittore Cesare dell’Acqua, Ettore, capitarono per caso in questa osteria. Notarono con piacere che il vino, servito dal dalmata “Toma”, era degno di apprezzamento ma soprattutto di parecchi bis. E come un bicchiere chiama l’altro, anche un amico tira l’altro e, in men che non si dica, i frequentatori dell’osteria “Al Papagallo” si incrementarono a tal punto che si rese necessario creare una "congrega", un gruppo dedito al culto del Dio Bacco che prese il nome di “Tribù dei Papagai”.
Il programma del gruppo, molto affiattato e soprattutto molto assetato, era quello di risolvere i problemi della vita comune, scacciare eventuali grattacapi famigliari, bevendo il meglio ed al massimo e fare qualche “papagalada” (papagalada poptrebbe tradursi dalle nostre parti come una “maldobria” ovvero una birbonata, una marachella o uno scherzaccio).
Furono molte le “papagalade” fatte da questi “Amici Miei -ante litteram-”.
Una delle ultime "gogliardate" fu una serata danzante organizzata nella “Villa Murat”, ex residenza dei napoleonidi. La villa fu presa in affitto dalla tribù per una grande festa con ballo dove era d’obbligo l’abbigliamento “pappagallesco” ovvero abito misto. Ciò significava che i cavalieri dovevano indossare il frak con lo sparato bianco, collo e cravatta inamidati, ma con le “braghe” da operaio color carta da zucchero, berretto con visiera e al posto delle scarpe le classiche ciabatte “furlane” ossia quella di stoffa cucite a mano. Al posto del berretto con la visiera era permesso indossare il cilindro, ma in quel caso il portatore della “canna” doveva obbligatoriamente calzare scarponi da montagna. Sul come dovevano abbigliarsi le “dame” non si hanno notizie certe ma si pensa che le loro “mise” non saranno certamente state molto difformi dall’abbigliamento dei loro cavalieri.
Oltre alla prima "papagalada" che consisteva nell'istituire un museo umoristico permanente proprio nel locale dell'osteria e a questa di cui abbiamo appena parlato, la "pappagalada" più ben riuscita fu la cena data in onore del noto Maestro compositore di operette Franz von Suppè, proveniente da Zara e diretto a Vienna. Il menù, tutto a base di pesce e con molteplici portate come in uso nelle città marinare, era anche accompagnato dallo squisito vino che il locale offriva. Fu questa l’occasione per scoprire che il Maestro, oltre ad essere un ottimo compositore e creatore di operette, era anche una buona forchetta ed un ottimo bevitore. Si suol ricordare che egli fece onore alla tavola tanto che per il solo antipasto si fece servire tre porzioni di “folpi in salata”, per passare poi al “brodetto di scarpena” e ai “branzini in bianco”. Per un attimo, durante la cena, il Maestro rimase senza parole tanto che gli amici si spaventarono pensando ad un malore, ma egli gli tranquillizzò dicendo che la sua attenzione si era fissata sulla gustosa “granzievola in crosta” per carpirne i segreti della sua preparazione.
Finita la cena, il folto gruppo si spostò nel vicino bar “Alla Sanità” per concludere la serata con una classica”grappetta” si da pulire la bocca del grasso della cena. In quel frangente, nella concitazione del momento, qualcuno fece cadere un tavolino di marmo che andò in frantumi. Immediatamente il cameriere intervenuto fece di tutto per cercare di attirare l’attenzione degli avventori, uno dei quali, lo scultore Taddio, raccogliendo tra i rottami un pezzo di marmo delle dimensioni adatte alle sue idee, disse al cameriere di conservare quel frammento perché ne avrebbe fatto una lapide in ricordo della serata trascorsa in compagnia del maestro Suppè.
E così fù.
L’Osteria al Pappagallo visse altri anni di intensa attività “goliardica”; fu frequentata anche da cantanti e da musicisti del vicino Teatro Lirico (ora Teatro Giuseppe Verdi). Però, come spesso succede, dopo alcune opere di rimodernamento durante le quali vennero ritinteggiate le pareti, fu introdotta la luce al posto dei beccucci a gas, furono cambiati i vecchi tavoli e messe le tovaglie come si usava nelle più moderne trattorie, le cose cominciavano a cambiare. Fu proprio questo bel restauro che segnò l’inizio del suo decadimento.
Non era più l’originaria “Osteria al Pappagallo” sede della Tribù dei Papagai.
Si narra che, un vecchio avventore, entrato nel locale dopo il restauro ne rimase talmente deluso che se ne andò dicendo alla proprietaria: “Adio Nina! I ne ga ruvinà el local. Credeme a mi non sarà mai più gnente de ‘sto logo” (Addio Nina! ci hanno rovinato il locale. Mi creda non sarà mai più nulla di questo posto). Ebbe ragione quel vecchio avventore perché dal quel momento, lentamente ma inesorabilmente, la fortuna di quella vecchia osteria incominciò a venir meno tanto che in breve tempo venne completamente dimenticata.
Però, morto un Papa si fa un altro.
Scendendo da una delle strade dello stesso rione, proprio all’incrocio con la via dei Capitelli, ci si poteva imbattere in una casa di vecchissima data ma dall’aspetto ancora robusto. Un portone in legno massiccio immetteva in un androne e poi in un cortile dalla forma quadrangolare. Lentamente questa casa di nobili origini si trasformò nel “fondaco” di uno straccivendolo. Col tempo, per merito di un altro dalmata, tale Marco Cumbat che lo rilevò, esso si trasformò in una onoratissima osteria che ebbe vita felice per parecchi anni ed il cui nome era “Alla Bella America”. Il ritrovo divenne in brevissimo tempo meta di un gran numero di operai, braccianti e marittimi che furono attratti dalla bontà del famosissimo vino chiamato “Opollo di Lissa” che a quel tempo aveva la virtù di far girar la testa gia dal terzo bicchiere.
Il cortile dell’antico palazzo di cui abbiamo parlato poco sopra, durante la bella stagione, si trasformava in un giardino, spartano ed illuminato solamente da alcuni fanali a petrolio, in seguito trasformati in beccucci a gas..
In questo cortile, frequentato da una sana ma alquanto grezza clientela, apparve una sera un gruppo di personaggi insoliti per quel posto. Erano quattro artisti della Trieste dell’epoca, erano lo scultore Rendic ed i pittori Beda, Lonza e Pogna. Lo stupore dei comuni frequentatori dell’osteria al veder entrare gente d’alto rango si trasformò ben presto in malcelati mugugni e richieste rivolte al titolare di non servire i nuovi avventori. Ovviamente il padrone, da buon oste qual’era, si guardò bene dall’essere sgarbato con la nuova clientela perché ne andava del suo profitto ma, obbligato dalle insistenze degli “habitué”, dopo aver loro servito il suo rinomatissimo Opollo li invitò a non farsi più vedere. Per nulla intimoriti dall’accoglienza tutt’altro che bonaria, il Rendic, da dalmata verace, non si fece perdere l’occasione per imporre i propri diritti e quelli della sua allegra brigata che avendo apprezzato il buon vino erano decisi a ritornarci con assidua frequenza e con buona pace di chi li aveva snobbati..
Anche in questa occasione, come per l’Osteria al Pappagallo, l’assidua frequenza del locale da parte del nuovo quartetto richiamò amici ed il ritrovo inizio a popolarsi di avventori tanto che ciò indusse gli amici a rifare la stessa esperienza; e cosi dopo vari scambi di idee tra di loro il Rendic disse: “Savè cossa che ve digo? Al <Papagal> ierimo una Tribù e qua diventaremo una Colonia, la <Colonia Americana>”
E da quel momento nacque la famosa società che per spirito benefico, goliardico e di buon umore lasciò dietro di se tanti bei ricordi.
La Colonia Americana visse un ventennio di vita chiassosa e felice e fu l’anima di tante feste cittadine, di indimenticabili pomeriggi carnascialeschi e di festival di canzonette anche dialettali.
Una di queste canzoni, che divenne l’inno sociale della compagnia fu musicata, in incognito con il nome del "il Cavaliere", dall’autore di numerose operette, il già menzionato Maestro Franz von Suppè ed era intitolata “Salve o Colombo” ed ancora oggi viene cantata da vari cori.
Salve, o Colombo, ligure ardito che il novo mondo festi palese: a questo nostro sacro convito noi t'invochiamo, gran genovese! Noi t'invochiam! Qua semo na famegia che no ghe giol la testa, nissun ne rompe i timpani qua semo sempre in festa, qua no ghe xe na ciacola, alegri, materan! Ghe xe gran bele mace fra i nostri american! Ave, color vini clari; Ave, sapor sine pari: nos, vagabunduli, sumus jucunduli, sumus cristiani, Americani per omnia popula populorum, amen, amen! Pitori, artisti celebri, scultori, leterati, el vin da lì i se ciucia che 'l par el proprio lati; chi no ghe xe na ciacola...
alegri materan,
Ghe xe gran bele mace
tra i nostri american ...
Purtroppo la storia si ripete ed anche per questa allegra brigata e per la loro sede il destino era segnato. L'osteria, dopo essere stata spostata in altra sede,aver cambiato genere di clientela ed aver raffinato il suo servizio, lentamente assieme alla stessa Compagnia degli Americani, o più semplicemente America, cadde nell’oblio insieme alle tante cose belle che Trieste ebbe ed ha ancora da raccontare.
(libera trascrizione dal volume “Trieste che passa” di Adolfo Leghissa – edizione Italo Svevo 1971)