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REPETITA IUVANT


Tempo fa un amico del gruppo FaceBook

"Noi delle Vecchie Province"

aveva condiviso una prefazione o una presentazione (non lo so di certo non possedendo il libro in questione) molto interessante che riassumeva la situazione psicologica e sociale dei bambini a Trieste negli anni sessanta.

Certamente quelli che non erano bambini a Trieste negli anni sessanta o che forse non erano nemmeno a Trieste queste cose non le possono capire se non unicamente inquadrandole in un nostro radicato senso austronostalgico, che così non è.

Voglio riproporre questo scritto in quanto nel gruppo i post si sovrappongono e certe volte qualche inserimento interessante può sfuggire anche all'occhio attento del lettore.

BAMBINI A TRIESTE NEGLI ANNI SESSANTA

Si sa bene questo. Tanto da diventare un luogo comune.

La Storia la scrivono vincitori. O chi detiene il potere, aggiungo io.

Tanto che l'Italia, sconfitta nella seconda guerra, ma al di qua della cortina di ferro, ha potuto togliersi lo sfizio, quasi fosse una potenza vincitrice, di raccontarcela a suo piacimento, la Storia.

A cominciare dalla sconfitta, che osservata da una prospettiva sfalsata, è diventata una Vittoria. La Vittoria delle forze democratiche!

Insomma, nessuna sconfitta. Unico perdente? Mussolini e tutti i suoi, chiamiamoli così, più stretti collaboratori. Forte di questa patente di Stato democratico e con le spalle protette dalle forze realmente vincitrici, ecco che finalmente l'Italia ci racconta la Storia delle nostre terre. La Vera Storia, si badi bene! Mica quella sfalsata che i tanti nonni Frane davanti al loro bicchiere di rosso, andavano blaterando a Pasqua o a Natale nelle loro casetta di Koloncovec, o a San Giacomo, o a San Giovanni (ndr. aggiungo io)

Non importa. Scherziamo? Quelle erano solo chiacchiere, appunto, di uomini senza cultura, di contadini, artigiani, operai. Persone che appartenevano a un altro mondo. Fantasmi sopravvissuti. Fantasmi gialloneri. Ancora tra di noi alla ricerca della propria anima, prima di sparire definitivamente dalle nostre vite e dai nostri ricordi. E la lenta triturazione dei nostri cervelli inizia così già nei primi anni di vita. Dev'essere un lavoro sistematico, costante. Guai a cedere. C'è il rischio che si possano innescare pericolosi sussulti di coscienza. Il dubbio, quando si insinua pericolosamente dentro di noi... e chi lo ferma più? Una serpe pericolosa, il dubbio. Può spalancare le porte alla negazione e di fronte alla negazione non c'è propaganda che tenga. Quindi, forza con il lavoro. Dateci dentro, insegnanti, mi raccomando, il compito più duro sarà il vostro. E quindi... celebrare gli eroi del 15-18. e i ragazzi del '99. E quindi... canti patriottici in piedi, sull'attenti, prima della campanella. 'Sti bambini, devono imparare la canzone del Piave a memoria. Non ci sono scuse. Dai, che poi la canteremo alla festa dell'Arma! E poi giù aranciata per tutti! E anche il nostro adorato Inno, mi raccomando! Tutto purché gli strani nodi allo stomaco che possono prendere si sciolgano in fretta. Siamo Italiani, capite bambini? E dannatamente fieri di esserlo!

Questa terra, per la riconquista della quale tanto sangue è stato versato, è orgogliosa di voi. Il Tricolore sui vostri volti vi donerà un'aura di bellezza unica e inimitabile. Bambini, siate fieri della vostra Patria!

E poi, giusto qualche anno dopo, improvviso il dubbio. Trovarsi quasi senza rendersene conto, adolescenti sul filo teso, tra una patria inventata e la realtà di un'identità scomparsa, che affiora a tratti dalla memoria, dai racconti dei tanti Frane di Koloncovec.

E chiedersi che faccia avesse il nonno sepolto in Galizia e perché la guerra qui da noi comincia nel '14 e scoprire l'esistenza del sistematico lavoro di riduzione dei cognomi originari nel triste ventennio, nel maledetto ventennio. Capire che è tutto una bufala, che tutto ciò in cui avevi creduto e che tanto meschinamente ti era stato piantato nel tenero fragile cervello di bambino si poggiava sul niente.

Ti casca un mondo, poco da fare. E da questo allo risvegliarsi con una nuova coscienza il passo è breve. E allora via a documentarsi, a studiare la storia, a capire, o perlomeno a provare a farlo.

Scoprire che Trieste fino a Maria Teresa era poco più di un villaggio di pescatori e che l'invenzione di un Porto Franco è stata la geniale molla della trasformazione. E scoprire ancora che gli sloveni sono qui da sempre e che nessuna mano divina li ha calati improvvisamente dall'alto. E scoprire ancora che le tue radici affondano nei boschi della Slovacchia e dai colli dell'Istria e dalla pianure della Slovenia e dalle coste dell'Italia. E improvvisamente rendersi conto che la tua identità, le tue radici, ti vengono negate e il tricolore diventa solo un accostamento cromatico e niente più.

Convivere con la mancanza d'identità. Per anni l'ho fatto e il senso di vuoto che l'accompagnava ha segnato profondamente quello che io sono oggi.

Un triestino. Un triestino e basta. Finalmente in pace con me stesso.

Jakob K.

... e non ci venga raccontato o, peggio, imputato di "italofobia" perchè questa è la storia, la Storia con la esse maiuscola e come tale incontrovertibile.

Lo sappiamo bene oggi, almeno fino a prova contraria, è amministrata dall'Italia e noi rispettosamente accettiamo questo peso della sconfitta.

"Guai ai vinti" si diceva, quindi accettiamo tutto, le leggi, le regole di comune convivenza, le tasse (?) e tutto quello che comporta essere di fatto (?) cittadini italiani ma non possiamo accettare il travisamento della storia ... cento anni non sono che la quinta parte parte dei 500 che siamo stati ben governati dai precedenti "barbari padroni"


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